
Visite nel braccio della morte del Texas
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Eppure ci siamo risvegliati dal torpore
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Proprio di fronte alla Walls Unit, il mattatoio texano dove vengono eseguite tutte le esecuzioni capitali dello Stato, abbiamo intervistato Clementine Bartoš, originaria di San Francisco (California), ma residente in Texas sin da quando era bambina, studentessa in chimica forense presso la Sam Houston State University di Huntsville (Texas) e rappresentante del Movimento ProVita locale.
Clementine, una ragazza all’apparenza timida ma molto decisa, ci racconta di come anche all’interno del Movimento ProVita – nonostante la maggior parte delle persone sia favorevole alla pena di morte, difendendo strenuamente il principio della legge del taglione «occhio per occhio, dente per dente» – ci sia qualcuno, come lei, che da tempo è giunto alla conclusione che essere pro vita significhi difendere la vita umana, tutta.
Ci racconta delle difficoltà avute, soprattutto all’inizio del suo percorso, ma ora è certa di essere sulla strada giusta e, nonostante sia consapevole dei tempi biblici di cui il Texas avrà bisogno per modificare questo Stato di cose, agisce nella convinzione – che è anche la nostra – che costruire ponti e relazioni con chi la pensa in maniera diversa possa aiutare il movimento abolizionista a raggiungere lo scopo prefisso, ossia l’abolizione della pena di morte.
Sottolinea, Clementine: «[…] in una società moderna e civile la pena capitale è totalmente fuori luogo, poiché le carceri sono sempre più sicure e la cittadinanza è protetta quando un criminale viene assicurato alla giustizia. Non vi è, quindi, alcuna necessità di ricorrere alla vendetta, peraltro considerando che la pena di morte non ha alcun effetto deterrente ed è molto più costosa rispetto a pene alternative, come l’ergastolo».
Una buona parte dell’intervista Clementine la dedica a casi di persone innocenti condannate a morte e parla a lungo del caso di Robert Roberson [la cui data di esecuzione è fissata per il 16 ottobre p.v., nostra nota]. «Persino chi allora lo accusò ora dice di avere commesso un errore», dice.
Lo scorso anno l’esecuzione di Roberson fu fermata all’ultimo momento a seguito di una mozione presentata dai suoi avvocati che sostenevano – e sostengono – che la diagnosi di morte per «sindrome del bambino scosso» fatta nel 2002 nell’ospedale dove l’uomo aveva portato la figlia Nikki in condizioni critiche, sia stato un errore medico e che i disturbi dello spettro autistico, diagnosticati a Robertson solo nel 2018, abbiano avuto un ruolo importante nella condanna. “Non c’è stato alcun crimine, ma solo la tragica morte di una bambina per cause naturali”, hanno affermato gli avvocati nel ricorso alla Corte Suprema. Infatti, recenti analisi mediche hanno attribuito la morte di Nikki a una grave polmonite, all’epoca non rilevata, aggravata dalla prescrizione di farmaci inappropriati.
Eppure, ci dice Clementine sospirando con amarezza, il Texas è determinato a porre fine alla vita di Roberson. E sottolinea, invitandoci a far presente il suo pensiero: «Il caso di Roberson ci deve far riflettere, fra le altre cose, sull’alto rischio di mettere a morte persone non colpevoli. E’ necessario far capire a chi ha ancora dubbi che lo Stato non può arrogarsi il diritto di uccidere».
Siamo d’accordo, totalmente.
E aggiunge:
«Il male procurato dalla pena di morte non fa altro che portare altro male ed altro dolore nella nostra società. Se difendiamo la vita, è importante capire che non c’è alcuna differenza fra la vita di un bambino non nato [aborto] o l’eutanasia e l’uccisione di una persona per mano dello Stato, anche se colpevole».
Prima di congedarci chiediamo a Clementine cos’altro noi europei possiamo fare, a suo avviso, per sostenere il movimento abolizionista statunitense in questa lotta. Questa la sua risposta :
«State già facendo moltissimo, con petizioni, conferenze, incontri con studenti, visite ai detenuti ed alle loro famiglie, incontri ed eventi coi famigliari delle vittime con cui collaborate, pressioni ad ogni livello, e molto altro. Continuate in questo modo, anche stringendo sempre più alleanze e collaborazioni con chi qui continua a lottare. Il vostro aiuto è fondamentale. C’è un caso emblematico di cui parlo spesso qui e che riguarda voi europei e il grado di civiltà che siete stati in grado di dimostrare, ossia le stragi in Norvegia del 2011 [Utøya e Òslo, nostra nota]. Nonostante l’orrore, il popolo norvegese si è detto sempre e comuque contrario alla pena capitale, che comunque non sarebbe stato possibile applicare [in Norvegia non c’è la pena di morte, essendo stata abolita per i reati ordinari nel 1905 e completamente nel 1979, mentre l’ultima esecuzione è avvenuta nel 1948. La Norvegia è una nazione totalmente abolizionista in materia di pena capitale]. E’ ora che anche qui si capisca che questo sistema barbaro non può continuare ad esistere».
Grazie, Clementine, per il tuo lavoro, che è anche il nostro.
Non molleremo!